Top Gun: Maverick

Il 3 marzo 1969 la Marina Americana fondò una scuola d’elite per il miglior 1% dei suoi piloti. Il suo scopo era quello di insegnargli l’arte perdura del combattimento aereo, per far si che i suoi diplomati fossero i migliori piloti del mondo.

Ci riuscirono.

La Marina la chiama Fighter Weapons School.
Ma i piloti la chiamano semplicemente:

TOP GUN

Prima di entrare in sala non mi aspettavo nulla ma ero già deluso, eppure, come disse Gene Wilder in ‘Frankenstein Junior’: “Si può fare!”. Ebbene sì, si può fare un sequel all’altezza dell’originale. A differenza di quanto accaduto con ‘Blade Runner’, ‘Indiana Jones’ o ‘Star Wars’, questa volta il seguito di un film (o saga) degli anni ’80 funziona, ed anche se non se ne sentiva il bisogno (perchè oggettivamente diciamocelo, pur avendo visto il ‘Top Gun’ del 1986 almeno una quindicina di volte non mi son mai svegliato nel cuore della notte pensando: “Cavolo, chissà che fine avrà fatto Maverick? Sarà diventato istruttore? Si sarà ritirato in campagna a coltivare ravanelli?”). Eppure, ‘Top Gun: Maverick’ porta avanti coerentemente il personaggio nei giorni nostri (2020) e senza le solite sbavature dei sequel.

Danger Zone

Siamo nei ruggenti anni ’80. Nelle fiorenti discoteche si balla musica elettronica sulle note di Giorgio Moroder, ci sono i cabinati nelle sale giochi e per ascoltare la musica per strada si gira con cassetta e Walkman. Sono gli anni dei piumini colorati, dei giacconi in pelle da aviatore e dei Ray Ban (chissà perché), ma è anche l’era degli Stati Uniti come gendarme del mondo. Sono gli anni di Reagan alla Casa Bianca, della Thatcher a Downing Street e della guerra fredda che sta per giungere al suo ultimo atto. E’ nel 1986 che Tony Scott, fratello del più celebre Ridley, gira un caposaldo del mondo del cinema: ‘Top Gun’. A rivestire i panni del protagonista Pete Mitchell c’è un giovane Tom Cruise, agli esordi della sua carriera, ancora con i denti storti e le sopracciglia poco sfoltite. La pellicola ebbe un enorme successo, propaganda involontaria della superpotenza militare Statunitense che in quegli anni fletteva i muscoli davanti al mondo. E’ indossando un paio di Ray Ban e pilotando un F-14 Tomcat che Cruise interpreta uno dei personaggi più iconici del cinema, creando, sotto la saggia guida di Tony Scott, un qualcosa che resterà negli annali. Ma non è solo questo: è un contesto culturale che viene immortalato per sempre, dalle musiche di Loggins e Flatermeyer fino all’abbigliamento, al mondo di pensare e di vedere il mondo.

Questa lunga premessa era per me doverosa prima di iniziare anche solo a raccontare quello che questo ‘Top Gun: Maverick’ effettivamente è: non è solo un sequel di un film vintage, ma un piccolo gesto d’amore e di nostalgia per quei tempi. Il film del 2022 (che doveva uscire già nel 2020 ma causa Covid-19 è stato posticipato per uscire esclusivamente nelle sale e non in streaming) è un voler ripercorrere quella strada, però con gli occhi di adesso. Un’omaggio che con tanta modestia e tanto impegno porta nelle sale quella stessa atmosfera e quelle stesse emozioni.

Il film vuole ripercorrere alcune scene fondamentali del primo capitolo: una su tutte la celebre opening sulla portaerei USS Enterprise, sulle note di “Danger Zone” di Kenny Loggins. Nell’86 Scott improvvisò buona parte delle riprese del decollo degli F-14, cosa che non accade qui (anche se all’epoca funzionò egregiamente), dove la spettacolarità viene premiata da eccellenti inquadrature, sempre ovviamente con la stessa magnifica colonna sonora in sottofondo. I parallelismi continuano per buona parte del film, come nella scena del briefing, quando dopo la serata al pub, l’inquadratura della camminata fra gli allievi, nell’86 con protagonista la McGillis, ora viene interpretata proprio da Tom Cruise che, 35 anni prima, era uno di quegli allievi. Sono tante le piccole reference al film precedente, che funzionano bene, strappando un sorriso (o una nostalgica lacrima) ai fan, e che riescono ad intrattenere il nuovo pubblico, riscaldando una piatto già visto ma che resta sempre estremamente gustoso.

“Talk to me Goose”

Ma non è solo di emozioni che si parla. Pete Mitchell non è cambiato, è rimasto il cazzone del primo film (merito anche di una performance di Tom Cruise che per l’età che ha è impressionante), con l’amore per il volo nel cuore e nient’altro, tanto che non ha nemmeno fatto carriera (“col suo curriculum oggi potrebbe essere senatore” gli dice un Ammiraglio interpretato da Ed Harris in una breve cameo).

Nel primo capitolo, oltre a Mitchell, troviamo anche il suo gregario e migliore amico, Nick “Goose” Bradshaw (interpretato da Anthony Edwards) e l’iconico Tom “Iceman” Kazinsky (interpretato da Val Kilmer che qui ritorna in una scena breve ma intensa). In questo sequel troviamo soprattutto nuovi piloti, fra cui Bradley “Rooster” Bradshow (interpretato da Miles Teller, già visto in “Whiplash” di Chazelle), figlio di Goose, morto nel primo film (dopo 35 anni dall’uscita di ‘Top Gun’ non lo considero uno spoiler) ed alcuni vecchi, come Iceman, che ora è diventato ammiraglio della flotta del Pacifico. Sono proprio i tragici avvenimenti del primo capitolo e porteranno forte risentimento e conflitto fra Maverick e Rooster per tutta la durata del film.

I piloti Maverick, Rooster, Payback e Phoenix

Questo difficile rapporto tiene saldi i due personaggi e con essi la trama, che altrimenti si sfalderebbe dopo la prima acrobazia in volo. La storia che ci presenta davanti è quanto più attuale possibile: in un mondo in cui gli aerei da combattimento sono tecnologicamente avanzati, e nel futuro saranno totalmente autonomi, il ruolo e l’abilità dei piloti viene messa in discussione. Fino a quel momento però, servono ancora uomini per le “Missioni Impossibili” (ogni riferimento è puramente casuale), ed è per questa missione ad altissimo rischio che Pete Mitchell viene richiamato alla Top Gun: per addestrare un manipolo di piloti a spingere al limite degli F-18 Super Hornet, che potrebbero però riuscire lì dove i caccia di ultima generazione fallirebbero. Pete vacillerà varie volte, dimostrando di essere più fragile di quanto si pensi, intrappolato fra il suo dovere (e la voglia di volare) e quella di portare a casa sani e salvi tutti i suoi piloti, che per alcuni alti ufficiali sono ampiamente sacrificabili in nome di una missione più grande. Ed è qui che Goose rientra ogni volta in scena, come quel fantasma che è, e che tormenta continuamente il protagonista, ma che, in qualche modo, riesce a trasmettergli la forza di andare avanti. “Talk to me Goose” ripeterà Maverick ogni volta che sale nell’abitacolo.

Destination Unknown

La missione non è veramente importante, diciamocelo seriamente. Non è quello l’intento narrativo del film di Kosinski, quanto più celebrare ed omaggiare il film originale. Mi riallaccio qui a quanto detto prima riguardo al contesto storico ed ai parallelismi, come la scena in spiaggia (dove “Playing with the boys” di Loggins viene sostituita da “I ain’t worried” dei OneRepublic) che vuole riproporre quel machismo tipico degli anni di Reagan con atletici piloti a torso nudo che giocano in spiaggia a pallavolo (o football come in questo sequel). Lo stesso regista ha ammesso di sentire il “peso” di dover girare la sua versione di quella scena.

Proprio per questo non è importante il nemico, che viene descritto come un generico “stato canaglia” (facilmente identificabile però con qualche ex membro dell’URSS, tanto che i caccia nemici sono dei Sukhoi-57 di fabbricazione russa), così come non è importante tutto il resto del contesto, che è solo un pretesto (un Macguffin avrebbe detto Hitchcock) per raccontare qualcosa di più. Ma come stavo dicendo, tutto questo è una scusa: una scusa per mostrarci immagini incredibili, tramonti stupendi incastonati in ottime inquadrature, incorniciate da una colonna sonora targata Hans Zimmer che non delude mai (Lady Gaga per me invece si). Una cosa che cambia però rispetto al primo film è il rapporto con le donne: non è soltanto l’ingresso nella Top Gun di Natasha “Phoenix” Trace, ma anche la relazione fra Pete e Penny (vecchia fiamma del passato che ora gestisce il pub), che assume toni seri e profondi, a sottolineare che non solo Pete è cambiato, ma anche i tempi nei quali viviamo.

Maverick e Penny in una scena del film

Take my breath away

“Take my breath away” cantavano i Berlin musicati da Moroder proprio nel primo film. “Portami via il respiro”, questo speravo quando sono andato a vedere questo film, ed uscito dalla sala ero rimasto infatti senza fiato. Onestamente non mi aspettavo tutto questo… amore. Mi aspettavo acrobazie incredibili si, mi aspettavo la spettacolarizzazione (per noi uomini quasi sempre imprescindibile) degli aerei da caccia, l’adrenalina e tutto il resto ma non questo. Non ci speravo nemmeno nel trovare una sincera lettera d’affetto ad un qualcosa di così lontano nel tempo, un omaggio pieno di rispetto ma che non ha paura di superarlo. L’operazione nostalgia è riuscita magnificamente alla Paramount (anche nella scelta di non chiamarlo ‘Top Gun 2’), trovando un bilanciamento quasi perfetto, anche se con 10 minuti in più potevano contestualizzare meglio certi personaggi (come Hondo) e premere di più sull’acceleratore in alcune scene.

La regia di Joseph Kosinski (che è quell’eroe che ci ha regalato ‘Tron: Legacy’ – Fun fact: i Daft Punk che hanno creato l’OST di Tron si sono ispirati proprio a Moroder per il loro Sound) si rivela più che vincente anche perchè tendenzialmente dove mette la mano il produttore Jerry Bruckheimer le cose difficilmente vanno per il verso storto. La battaglia che questi due hanno combattuto è stata importante: mentre quasi tutti gli studios hanno fatto debuttare in streaming i propri film durante la pandemia (o alcuni registi come Nolan hanno fatto il possibile per incastrare la proiezione nelle sale nelle piccole finestre lasciate libere dai lockdown), loro hanno aspettato due anni (che nel mondo del cinema è un’eternità), consapevoli della qualità materiale girato e che esso poteva essere visto e goduto appieno solo al cinema e da nessun’altra parte. Questo è amore per il proprio lavoro, change my mind.

Tom Cruise e Joseph Kosinski sul set di ‘Oblivion’

Il paragone mi viene semplice in questo caso: se il ‘Top Gun’ del 1986 è perfettamente reincarnato da quel capolavoro che è l’F-14 Tomcat, questo ‘Top Gun: Maverick’ assume le sembianze del protagonista F-18 Super Hornet: migliore certamente, ma umile nel ricordare le proprie origini e che soprattutto vuole ribadire a tutti che non è l’aereo a fare la differenza, ma il pilota, come dice Maverick.

8.75/10

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